Alle ore sette e trenta del
mattino, in pieno agosto, quando la piazza antistante la basilica del paese non
è ancora illuminata completamente dal sole, una fiammante Mercedes si ferma
davanti al baretto, parcheggiando nell’unico modo in cui, un possessore di
cotale veicolo, avendolo comprato al solo scopo di mostrarlo, può fare:
intralciando il traffico. Mentre il lattaio con camioncino tenta di passare,
mandando una serie ben definita di madonne, dal clamoroso vetturone, con tanto
di cerchi in lega scintillante, esce un coso smilzo, con gli occhi di tartaruga
da finto intellettuale e la camicetta su misura. Nell’aria, un’acqua di colonia
dal gentile olezzo di agrume e lavanda. Mentre scarico il bidone del lavabile
dal mio vecchio Transit, assisto alla scena del finto manager il quale giammai
si preparerebbe un caffè a casa per il solo fatto che non riesce a svitare la
macchinetta ben stretta dalla cameriera dominicana, il giorno prima. Mi guarda,
mi conosce, con il sorriso ebete descrive esattamente la situazione nella quale
io e lui ci troviamo: il sottoscritto con la t shirt sporca di idropittura,
pronto a sudare per portare a nuova vita cessetti di appartamenti affittati per la gioia di oriundi e lui,
pronto a scaldare la sedia di un ufficio nel quale nessuna carta importante si
poserà sulla sua scrivania, perché le azioni della sua azienda le ha vendute a
rapaci manager polentoni, in cambio di una targa sulla porta e la certezza di
portare a casa stipendio con annessa futura pensione. Subito distoglie lo sguardo di commiserazione
sulla mia persona per rivolgersi a quattro simili seduti da tempo con il caffè
in mano. Gli altri, lo salutano con vigorose pacche sulle spalle e elogi che
farebbero inorridire anche il più sordido dei leccaculo.
Non ci sarebbe nulla
di strano in questa scena della provincia borghese se non fosse che il suddetto
tipo si è fatto qualche mese di domiciliari e non ha la patente ergo non
potrebbe scarrozzare per le vie del borgo con il macchinone. Sono ancora lì,
nello stridor di denti della mia pura invidia quando arriva anche il secondo
individuo, ha le palpebre a gradoni come una centenaria tartaruga di terra, la
barba fintamente incolta e un centinaio di milfone pronte a cliccare like sulla
sua pagina solo perché, oltre alla cocaina, si diletta nel citare frasi
raccolte dalla mediocrità degli scrittori blockbuster italiani. Me lo ricordo,
da giovane, bello a causa del suo cognome nel quale sguazzava il mito di una
indecifrabile allure da sciupafemmine. Dopo una vita passata a mangiarsi i
soldi alle slot e mandare a puttane varie attività, anche lui ai domiciliari
per qualche mese. Il problema è che lui, i domiciliari, li sta scontando e si
permette il lusso di farsi i selfie al mare, andando in culo ai caramba. Ma si
sa, il paese è piccolo, povero ragazzo, ad uno con il cognome da ex bello nulla
si nega. Anche per il Califano della
costa dei Trabocchi, generose pacche sulle spalle e caffè pagatissimi dagli
amicissimi carissimi. Chiudo il furgone con uno “slam” deciso che risuona in tutta
la piazza onde evitare che le mie maledizioni agli dei immortali, facciano
crollare la navata con il santo apostolo incluso. Nella calura estiva di questo
agosto infinito che sembra un lunedì perenne, mi chiedo solo una cosa: quanto
costa una persona? Fino a che punto, per salvare la nostra immagine, appannata
dalle nostre colpe, siamo disposti a sopravvalutare gli altri al solo scopo di
sentirci accettati nella società? Siamo certi di avere un giusto prezzo e fino
a quando siamo disposti a tenere in piedi delle simulazioni collettive che
abbiano il solo scopo di esercitare l’ipocrisia assoluta? Io, ad esempio, non
so far di conto. Non ho mai imparato. Quando conosco una persona non riesco mai
a calcolarne il valore in base a quanto mi convenga frequentarla. Potrebbe
essere una definizione che riesce a generare consenso dalla maggior parte dei
lettori ma non è così. Nell’angolo più recondito della nostra mente si
nasconde, non visto, il concetto di utilità il quale ci consente del
monetizzare i rapporti umani. Per me, al contrario, ogni individuo ha una
storia da raccontare, una storia diversa dalla mia che, per quanto scontata,
può generare un’esperienza “utile” alla mia persona. In ogni momento della
giornata osservo tutti quelli che incontro, li ascolto parlare, dire cose,
toccare oggetti, muoversi. Penso a come sarà la loro vita, a quello che
troveranno a casa, chi amano, con chi divideranno le loro ansie, i loro
desideri. Se potessi conoscere le intenzioni di tutti, avrei materiale per
scrivere infiniti racconti. In tutto questo “osservatorio personale” non c’è
mai stato un momento nel quale io abbia pensato che queste persone servissero
al mio arricchimento materiale. Forse non sono stato mai educato a vedere
nell’altro un mezzo. Per questo motivo mi porto dietro , a detta di molti, una
sorta di povertà genetica e di inutile pratica dell’empatia. Dicevo dell’aver
imparato a conoscere gli inutili, coloro i quali ti impoveriscono perché
erodono la tua predisposizione ad accettare le esperienze degli altri. Di
queste persone ne ho conosciute molte, specialmente negli ultimi tempi e devo
confessare che mi hanno sorpreso per la
capacità di elaborare calcoli, avendo una visione a lungo termine dei risultati
che otterranno. Ho un unico problema, delle persone di cui ho raccontato sopra,
la storia che li rappresenta è racchiusa nella bugia in cui gli altri hanno
creato per loro una dimensione nella quale sguazzare. Qualcuno parlava della “provincia”, quella che
si leggeva tra le righe di Piero Chiara o nei film di Risi. Delimitare questo modo di essere, inizia ad essere esercizio vacuo perché stanno cambiando
gli stessi valori di quello che riteniamo esser passibile di critica. Emerge
una nuova definizione, quella di furbo post provinciale il quale ha sdoganato
qualsiasi concetto di moralità elegante, un sopravvissuto dei dopobarba frocizzanti anni ’80 di Armani, gli adesivoni pro surf sul cofano della mini e gli occhiali
di Briatore. La nuova vetrina dello sbruffo-truffatore non è più l’Harry’s bar
ma la pagina del webbe, dove si può essere tutto: dal salumiere porno spagnolo
di Bigas Luna al sociologo con il culo sulla poltrona di Costanzo, terminando
nell’invettiva contro lo Stato patrigno che a tutti ruba senza nulla donare. Tutto,
in questo allegro caleidoscopio della nullità, è calcolato in relazione all’interlocutore
che si ha davanti. La gara di resistenza si fa solo per evitare di scoprire le
carte quando chi ti sta ascoltando, ha il terribile vizio di conoscere la “natura
umana”. Il problema si fa serio quando, una volta che il piacione è stato “spiaciato”,
egli farà di tutto per isolarti, perché non sei utile alla sua causa di
beatificazione. Inizia il gioco del “tirammerda”. Il risultato è sempre al
favore del farabutto. L’isolamento produce in coloro che hanno coscienza e
dignità un subdolo complesso di colpa misto ad un crisi dell’io. I malcapitati
si pongono dei dubbi sul fatto di essere loro i diversi, quelli che non vanno
bene. C’è un grosso equivoco, il cambiamento è più profondo e sfugge la logica
consolidata. Secondo la società che è in procinto di sostituire quella “di
prima”, come un film maccartista con i suoi body snatchers, il bianco sarà
nero, il bello sarà brutto, la menzogna sarà verità, il giusto sarà sbagliato,
lo stupido sarà il saggio. Il senso di tutto questo si può racchiudere nello
slogan del relativismo cafone: “Ma però”. La maledizione rimarrà perenne sul
capo di coloro che si pongono dubbi perché perdono il tempo a pensare mentre
gli altri, nonostante tutto, ti sorrideranno beffardi, chiudendo il loro
macchinone per andare a fare colazione.