lunedì 25 febbraio 2019

La trovammo buttata lì.


La trovammo buttata lì, lungo il muro della caserma Pasquali, a L’Aquila, la vecchia bicicletta Cimatti di mio nonno. Ci aveva trascorso tutta la vita a cavallo di quel ferrovecchio. Aveva un pedivella spezzata. Fu la prima volta che vidi mio nonno con gli occhi inumiditi dal dispiacere e dalla gioia di averla recuperata. Non aveva la patente Nunnittu.  Quando , da giovane, aveva ricostruito le linee telegrafiche , in tutta Italia, da nord a sud, usava la bici per trasportare i pali di legno sui quali montare i cavi. Nonno era un uomo dalla forza incredibile: riusciva a pedalare tenendo queste lunghe travi sulla spalla. Sulla bici aveva legata la borsa di cuoio nella quale riponeva la colazione, gli attrezzi e qualche indumento. Sulla canna di quella bicicletta aveva fatto crescere figlie e nipoti, su e giù per le strade de L’Aquila. Su quella bici era andato ogni giorno, al Mercato in Piazza Duomo, tornando a casa carico di buste. Quel furto no, non lo aveva digerito ma, nonostante tutto, aveva pensato al ladro, forse un militare il quale, in ritardo per il rientro in caserma, trattenuto da qualche ragazza alla quale faceva il filo, aveva pensato bene di “prendere” quella bici lasciata incustodita ed “usarla” come mezzo  che gli avrebbe risparmiato qualche giorno di corvè.  Pensiamo a quel giovane di tanti anni fa e di come avesse forzato la condivisione della bici di un altro. Non un furto, ma un mezzo necessario.  Oggi ci nascondiamo dietro alla difficoltà che si cela dietro il concetto di “Bike sharing”, gli ultimi insuccessi di numerose start up del settore (vedi il fallimento di BikeMI), vanno a tutto vantaggio dei detrattori , i quali si ostinano ad affermare  l’inutilità delle isole pedonali e la necessità dei parcheggi nelle città anche le più piccole. Nei centri urbani come i nostri, dove la dimensione umana è ancora poco mediata dalle necessità di mercato, possiamo ripartire con un nuovo modello di “Bike sharing avanzato.
L’idea che ci è venuta è quella del “bike box”, una sorta di casotto, posto in luoghi strategici della città, nel quale siano custodite le bici, al riparo da atti vandalici. Possiamo utilizzare la stessa metodologia degli operatori più evoluti, rendendo disponibili le bici, grazie ad una card ricaricabile, acquistabile presso i negozi, oppure la pratica dei micropagamenti tramite app.  L’accesso al box è lo stesso di quello che si piò ottenere per accedere ad un bancomat protetto. Potremmo collegare la card all’interno di circuiti di spesa in attività commerciali locali, accumulando punti che darebbero diritto ad usufruire gratuitamente della bici condivisa. Il bike sharing così organizzato potrebbe essere completato con dei badge giornalieri per turisti, con facilitazioni per gli stessi e sconti sugli ingressi a musei locali. Il bike box funzionerebbe anche da centro ricarica per bici a pedalata assistita. E’ un modello culturale difficile da cambiare perché rappresenta una presa di responsabilità di un bene pubblico. Anche questo può servire per “cambiare passo”.