Il giovin ormai allocato nel
posto a lui donato dalla norcina senatrice, tosto si abitua agli usi che si
convengono a tutti quelli che al lavoro non anelano. Le abitudini uccidono e
durante le noiose giornate, il donzelletto addestra le furbizie, le malizie, le
astuzie, i vizi e gli ozi. Se fosse un secondino, potrebbe divenire aguzzino
per il puro piacere di spendere le vuote giornate coi colleghi suoi simili. Se
fosse un contabile, farebbe la conta delle caccole da appiccicare sotto la
scrivania, se fosse un usciere, uscirebbe spesso a prendersi un caffè, se fosse
al cimitero, passerebbe il tempo ad aprir casse per vender gli scheletri a
studenti di medicina. Il giovinetto ormai maturo ha sposa la ragazza, quella
vicina di casa, conosciuta alla sagra del paese, l’ha scelta con lo stesso
grado di istruzione, perché giammai ha da esser inferiore alla donna (glielo ha
insegnato mammà). Per fare il moderno le concede di fare la parrucchiera o l’estetista,
in modo che, nella cerchia delle sue clienti, egli possa fare il gallo nel
pollaio. La moglie figlia, due tre pupi cos’ che, tra casa, pannolini e lavoro,
lasci libero il donzello di fare il provolone con le ragazze dietro al bancone
del bar. Si diverte a stalkerare le amiche della moglie, le donne che vede in
giro, perché il maschio, come dice mammà, è cacciatore e bisogna capirlo il
poverino, ci ha l’uccellone infiammato perché la moglie bigodinata, con il pupo
da cambiare in braccio, gli fa abbassare il testosterone e l’autostima. Inizia
a zuzzurellare nel collegio genitori, piacione con le pornomammine che
sculettano a sentir l’afrore della sua lavanda maschia.
Niun pelo di barba
giammai lo strema, egli è teso, raso, dalla giacca facile, dal braccialetto
insulso, dall’arbre magique alla vaniglia nell’auto portata a lavare ogni
mezz’ora. E’avvezzo a rovinare gli spizzelli ai compagni di calcetto il giovedì
sera, non ammette la sconfitta la resa, è l’imberbe che priva tutti della palla
per taglieggiare un calcio di rigore inesistente. In questa paranoia
dell’invecchiare rimanendo nessuno, lo coglie il senso di sconforto di una vita
destinata alla mediocrità del nulla. Ma arriva di nuovo il giorno quando la
fortuna bussa alla sua porta, come se avesse trovato in lui un figliuolo
meritevole. Un avido avvocato, nel pien della tenzone politica, ha notato il
donzelletto accompagnarsi con molti villici suoi pari. Sotto i baffi già fa due
conti su quanto il fanciullo conti tra il contado… (continua). martedì 10 dicembre 2019
mercoledì 4 dicembre 2019
Il donzelletto che vien dalla campagna (seconda puntata)
Seconda puntata
“Ohibò cosa vedono i miei occhi!”
La tronfia senatrice, passata per il borgo natio del giovin donzelletto, nota
molti fanciulli non più imberbi, i quali strombazzano con le moto truccate a
scureggetta, scambiando le marmitte per falli da satiri. La maschialità oziosa
si diffonde nell’aria, tra mozziconi sfumacchiati e giornaletti tipo “il tromba”
dove le donne vengon trattate a colpi di turbonerchie. Il donzelletto ci
sguazza nel testosterone, con una mano nell’acquasantiera e l’altra sulla
cippa. La prode Annuzza sente la puzza di elettore e di relativi genitori i
qual, pur di sistemare il figli allergico all’abeccedario, son disposti a far
votare la famiglia, compresi i trisnonni già morti e putrefatti al fin di
sistemare bellamente l’accidioso giovinetto. “Ci sarebbero tanti bei posti per
posteggiare stabilmente il figliuolo” esclama la senatrice all’indirizzo del
silenzioso padre, il quale baciar vorrebbe la mano porcina e inanellata. Subito
il contratto è stabilito, segnati nomi e cognomi, l’astuta candidata ricorda ai
timidi cafoni quali siano le combinazioni
da apporre sulla scheda, ricordando che, nel segreto dell’urna, Dio vi
vede ma anche donna Anna calcola. Dopo mesi di sollazzo, a proclamazione
avvenuta, il donzelletto vien chiamato al cospetto dell’eletta. “Ricorda eterna
gratitudine a ciò che ti donai e giammai sorprendoti a negare aiuto agli amici
degli amici quando sarai abbastanza vecchio per contare qualcosa”. Come il
marchio a fuoco per il vitello, l’ex villico ormai civilizzato dallo spirito
santo della raccomandazione, si forgia nel cervello il do ut des. E’ pronto per
la casa, la chiesa, la sposa… (continua)
sabato 30 novembre 2019
Il donzelletto che vien dalla campagna
“Ogni riferimenti a fatti o persone è puramente casuale o casualmente
puro”.
Prima puntata
Nel ridente villaggio,
amorevolmente allocato tra le montagne e il mare, terreno di coltura per il
politico di turno, gli irsuti e paonazzi contadini, si moltiplicano fertili, spandendo,
tra le campagne di viti ordinate, la progenie loro, pronta a conquistar
gloriosa, i feudi viciniori. I vecchi, posto lo scarpone sull’apice della
vanga, maledicono la zolla appiccicosa che impedisce loro di camminare svelti
per le strade di questo modo. Altro sperano per i figli loro, augurandosi il
riscatto dalle grame esistenze di cafoni. Una laurea, un dottorato, un carriera
fatta di gradi nelle italiche caserme. Il giovane che agli studi ben promette,
tosto vien mandato nelle città del mondo a diventar qualcuno, alcuni indossan
la divisa. Rimane tuttavia un nutrito branco di fanciulli, i quali attendono l’occasion
propizia, continuando a sforbiciare le viti, legandole ordinate. Negli opifici,
lungo le vie maestre talvolta espletano il loro genio meccanico, altre volte
apron le botteghe. In ultimo rimangono solo i restii ai libri, color ai quali
una vecchia maestra prende i capoccioni, per strofinar le nocche sulla testa di
neri capelli. Il periodo è pregno di
nonne sopravvissute a linee Gustav, nascondendo gli ori nelle grotte di
vallone, tra una gallina che produce qualche ovetto e le radici da bollire per
farci le zuppe ai figli smunti. Arrivano, insieme alla Vespa e le rate per il
televisore, i senatori bonari i quali carezzano i fanciulli durante le feste
patronali, con il cafone rivestito che bacia loro la mano a chiedere grazie,
favori ed una buona parola affinchè le braccia rubate all’agricoltura non
“faccino” il militare tra le zanzare del Polesine. Sbavano, sul dorso dell’arto
cicciuto, leccano con la coppola in mano e la lagrima da strizzare via dalla
palpebra, a mostrare il villico, prostrato davanti all’uomo che può.
Nel
frattempo, il senatore di turno, mentre si lascia sbavazzare la mano, conta i
voti della famiglia e a tutti distribuisce numeri da combinare sulla scheda a
realizzar miracoli e uno scranno in parlamento. Così, arriva il congedo per i
novelli zappatori insieme alla tessere scudocrociata, posata dal babbo
riconoscente a monito della prole sua. Ma le madri imbiancano, i padri muoiono,
le nonne si cagano addosso davanti ai larghi camini nelle sere di ottobre
quando, i nipotini avvezzi al rosario della sera insieme agli scapaccioni e al
timor di Dio, scorgono i primi languori pubici con le immagini della cosciuta
Parisi. L’assioma paterno recita il disprezzo della donna, il pallone maschio,
la gara di sputo radente e il dovere di metterlo nel culo al confinante. Cresce
in siffatto modo, il giovinetto, costretto alla riga di lato, alla glabra nuca,
dalla madre che lo adora fino all’estremo sacrificio purchè si trovi un posto
fisso e il resto si vedrà. Nell’estremo nitore delle facciate, dei giardini ben
rasati, delle madonne in gesso presso l’ingresso, l’odor di libri è come
l’iprite per l’austro ungarico, è polvere che si accumula inutile sugli
scaffali, è lo sterco del diavolo che corrompe il giovine e lo distoglie
dall’unico obiettivo del genitore ovvero generare l’anaffettivo, perché la vita
è dura in ogni caso e gli scrupoli riempiono le buche nel cimitero. Tutto è
concesso, perché la selezione naturale è un dogma darwiniano; il giovinetto lo
impara a tirare bastonate sulla testa dei conigli, a sgozzare tacchini, a
recidere le giugulari ai porci. Quando il “cello della casa” è quasi uomo,
iniziano i confronti coi compagni di bisboccia, crescono le invidie per i figli
dei compari di cui sopra, mandati a studiare in città, a fare il dottore,
l’ingegnere. Il uaglioncello di primo pelo anela anche lui al pezzo di carta da
appendere nel salotto buono, perché vuole comandare in “frazione”. Ci prova e
ci riprova mentre la fidanzatina lo aspetta a casa per coronare il sogno della
cafonetta: sposare il laureato. Ma lo sforzo manda il ragazzo sotto sforzo: i
libri tanto odiati, tornano a pesargli sul groppone, non sa come sfogliarli. Al
massimo potrà mandar a memoria i titoli, tanto per farsi il figo il sabato in
paese. Giunge il tanto agognato giorno per la rubizza senatrice, di mieter voti
e clientele nella ridente cittadina… (continua).
giovedì 21 novembre 2019
L'invasione degli ultraporci
Alle ore sette e trenta del
mattino, in pieno agosto, quando la piazza antistante la basilica del paese non
è ancora illuminata completamente dal sole, una fiammante Mercedes si ferma
davanti al baretto, parcheggiando nell’unico modo in cui, un possessore di
cotale veicolo, avendolo comprato al solo scopo di mostrarlo, può fare:
intralciando il traffico. Mentre il lattaio con camioncino tenta di passare,
mandando una serie ben definita di madonne, dal clamoroso vetturone, con tanto
di cerchi in lega scintillante, esce un coso smilzo, con gli occhi di tartaruga
da finto intellettuale e la camicetta su misura. Nell’aria, un’acqua di colonia
dal gentile olezzo di agrume e lavanda. Mentre scarico il bidone del lavabile
dal mio vecchio Transit, assisto alla scena del finto manager il quale giammai
si preparerebbe un caffè a casa per il solo fatto che non riesce a svitare la
macchinetta ben stretta dalla cameriera dominicana, il giorno prima. Mi guarda,
mi conosce, con il sorriso ebete descrive esattamente la situazione nella quale
io e lui ci troviamo: il sottoscritto con la t shirt sporca di idropittura,
pronto a sudare per portare a nuova vita cessetti di appartamenti affittati per la gioia di oriundi e lui,
pronto a scaldare la sedia di un ufficio nel quale nessuna carta importante si
poserà sulla sua scrivania, perché le azioni della sua azienda le ha vendute a
rapaci manager polentoni, in cambio di una targa sulla porta e la certezza di
portare a casa stipendio con annessa futura pensione. Subito distoglie lo sguardo di commiserazione
sulla mia persona per rivolgersi a quattro simili seduti da tempo con il caffè
in mano. Gli altri, lo salutano con vigorose pacche sulle spalle e elogi che
farebbero inorridire anche il più sordido dei leccaculo.
Non ci sarebbe nulla
di strano in questa scena della provincia borghese se non fosse che il suddetto
tipo si è fatto qualche mese di domiciliari e non ha la patente ergo non
potrebbe scarrozzare per le vie del borgo con il macchinone. Sono ancora lì,
nello stridor di denti della mia pura invidia quando arriva anche il secondo
individuo, ha le palpebre a gradoni come una centenaria tartaruga di terra, la
barba fintamente incolta e un centinaio di milfone pronte a cliccare like sulla
sua pagina solo perché, oltre alla cocaina, si diletta nel citare frasi
raccolte dalla mediocrità degli scrittori blockbuster italiani. Me lo ricordo,
da giovane, bello a causa del suo cognome nel quale sguazzava il mito di una
indecifrabile allure da sciupafemmine. Dopo una vita passata a mangiarsi i
soldi alle slot e mandare a puttane varie attività, anche lui ai domiciliari
per qualche mese. Il problema è che lui, i domiciliari, li sta scontando e si
permette il lusso di farsi i selfie al mare, andando in culo ai caramba. Ma si
sa, il paese è piccolo, povero ragazzo, ad uno con il cognome da ex bello nulla
si nega. Anche per il Califano della
costa dei Trabocchi, generose pacche sulle spalle e caffè pagatissimi dagli
amicissimi carissimi. Chiudo il furgone con uno “slam” deciso che risuona in tutta
la piazza onde evitare che le mie maledizioni agli dei immortali, facciano
crollare la navata con il santo apostolo incluso. Nella calura estiva di questo
agosto infinito che sembra un lunedì perenne, mi chiedo solo una cosa: quanto
costa una persona? Fino a che punto, per salvare la nostra immagine, appannata
dalle nostre colpe, siamo disposti a sopravvalutare gli altri al solo scopo di
sentirci accettati nella società? Siamo certi di avere un giusto prezzo e fino
a quando siamo disposti a tenere in piedi delle simulazioni collettive che
abbiano il solo scopo di esercitare l’ipocrisia assoluta? Io, ad esempio, non
so far di conto. Non ho mai imparato. Quando conosco una persona non riesco mai
a calcolarne il valore in base a quanto mi convenga frequentarla. Potrebbe
essere una definizione che riesce a generare consenso dalla maggior parte dei
lettori ma non è così. Nell’angolo più recondito della nostra mente si
nasconde, non visto, il concetto di utilità il quale ci consente del
monetizzare i rapporti umani. Per me, al contrario, ogni individuo ha una
storia da raccontare, una storia diversa dalla mia che, per quanto scontata,
può generare un’esperienza “utile” alla mia persona. In ogni momento della
giornata osservo tutti quelli che incontro, li ascolto parlare, dire cose,
toccare oggetti, muoversi. Penso a come sarà la loro vita, a quello che
troveranno a casa, chi amano, con chi divideranno le loro ansie, i loro
desideri. Se potessi conoscere le intenzioni di tutti, avrei materiale per
scrivere infiniti racconti. In tutto questo “osservatorio personale” non c’è
mai stato un momento nel quale io abbia pensato che queste persone servissero
al mio arricchimento materiale. Forse non sono stato mai educato a vedere
nell’altro un mezzo. Per questo motivo mi porto dietro , a detta di molti, una
sorta di povertà genetica e di inutile pratica dell’empatia. Dicevo dell’aver
imparato a conoscere gli inutili, coloro i quali ti impoveriscono perché
erodono la tua predisposizione ad accettare le esperienze degli altri. Di
queste persone ne ho conosciute molte, specialmente negli ultimi tempi e devo
confessare che mi hanno sorpreso per la
capacità di elaborare calcoli, avendo una visione a lungo termine dei risultati
che otterranno. Ho un unico problema, delle persone di cui ho raccontato sopra,
la storia che li rappresenta è racchiusa nella bugia in cui gli altri hanno
creato per loro una dimensione nella quale sguazzare. Qualcuno parlava della “provincia”, quella che
si leggeva tra le righe di Piero Chiara o nei film di Risi. Delimitare questo modo di essere, inizia ad essere esercizio vacuo perché stanno cambiando
gli stessi valori di quello che riteniamo esser passibile di critica. Emerge
una nuova definizione, quella di furbo post provinciale il quale ha sdoganato
qualsiasi concetto di moralità elegante, un sopravvissuto dei dopobarba frocizzanti anni ’80 di Armani, gli adesivoni pro surf sul cofano della mini e gli occhiali
di Briatore. La nuova vetrina dello sbruffo-truffatore non è più l’Harry’s bar
ma la pagina del webbe, dove si può essere tutto: dal salumiere porno spagnolo
di Bigas Luna al sociologo con il culo sulla poltrona di Costanzo, terminando
nell’invettiva contro lo Stato patrigno che a tutti ruba senza nulla donare. Tutto,
in questo allegro caleidoscopio della nullità, è calcolato in relazione all’interlocutore
che si ha davanti. La gara di resistenza si fa solo per evitare di scoprire le
carte quando chi ti sta ascoltando, ha il terribile vizio di conoscere la “natura
umana”. Il problema si fa serio quando, una volta che il piacione è stato “spiaciato”,
egli farà di tutto per isolarti, perché non sei utile alla sua causa di
beatificazione. Inizia il gioco del “tirammerda”. Il risultato è sempre al
favore del farabutto. L’isolamento produce in coloro che hanno coscienza e
dignità un subdolo complesso di colpa misto ad un crisi dell’io. I malcapitati
si pongono dei dubbi sul fatto di essere loro i diversi, quelli che non vanno
bene. C’è un grosso equivoco, il cambiamento è più profondo e sfugge la logica
consolidata. Secondo la società che è in procinto di sostituire quella “di
prima”, come un film maccartista con i suoi body snatchers, il bianco sarà
nero, il bello sarà brutto, la menzogna sarà verità, il giusto sarà sbagliato,
lo stupido sarà il saggio. Il senso di tutto questo si può racchiudere nello
slogan del relativismo cafone: “Ma però”. La maledizione rimarrà perenne sul
capo di coloro che si pongono dubbi perché perdono il tempo a pensare mentre
gli altri, nonostante tutto, ti sorrideranno beffardi, chiudendo il loro
macchinone per andare a fare colazione.
lunedì 25 febbraio 2019
La trovammo buttata lì.
La trovammo buttata lì,
lungo il muro della caserma Pasquali, a L’Aquila, la vecchia bicicletta Cimatti
di mio nonno. Ci aveva trascorso tutta la vita a cavallo di quel ferrovecchio.
Aveva un pedivella spezzata. Fu la prima volta che vidi mio nonno con gli occhi
inumiditi dal dispiacere e dalla gioia di averla recuperata. Non aveva la
patente Nunnittu. Quando , da giovane,
aveva ricostruito le linee telegrafiche , in tutta Italia, da nord a sud, usava
la bici per trasportare i pali di legno sui quali montare i cavi. Nonno era un
uomo dalla forza incredibile: riusciva a pedalare tenendo queste lunghe travi
sulla spalla. Sulla bici aveva legata la borsa di cuoio nella quale riponeva la
colazione, gli attrezzi e qualche indumento. Sulla canna di quella bicicletta
aveva fatto crescere figlie e nipoti, su e giù per le strade de L’Aquila. Su
quella bici era andato ogni giorno, al Mercato in Piazza Duomo, tornando a casa
carico di buste. Quel furto no, non lo aveva digerito ma, nonostante tutto,
aveva pensato al ladro, forse un militare il quale, in ritardo per il rientro
in caserma, trattenuto da qualche ragazza alla quale faceva il filo, aveva
pensato bene di “prendere” quella bici lasciata incustodita ed “usarla” come
mezzo che gli avrebbe risparmiato
qualche giorno di corvè. Pensiamo a quel
giovane di tanti anni fa e di come avesse forzato la condivisione della bici di
un altro. Non un furto, ma un mezzo necessario.
Oggi ci nascondiamo dietro alla difficoltà che si cela dietro il concetto
di “Bike sharing”, gli ultimi insuccessi di numerose start up del settore (vedi
il fallimento di BikeMI), vanno a tutto vantaggio dei detrattori , i quali si
ostinano ad affermare l’inutilità delle
isole pedonali e la necessità dei parcheggi nelle città anche le più piccole. Nei
centri urbani come i nostri, dove la dimensione umana è ancora poco mediata
dalle necessità di mercato, possiamo ripartire con un nuovo modello di “Bike
sharing avanzato.
L’idea che ci è venuta è quella del “bike box”, una sorta di
casotto, posto in luoghi strategici della città, nel quale siano custodite le
bici, al riparo da atti vandalici. Possiamo utilizzare la stessa metodologia
degli operatori più evoluti, rendendo disponibili le bici, grazie ad una card
ricaricabile, acquistabile presso i negozi, oppure la pratica dei
micropagamenti tramite app. L’accesso al
box è lo stesso di quello che si piò ottenere per accedere ad un bancomat
protetto. Potremmo collegare la card all’interno di circuiti di spesa in attività
commerciali locali, accumulando punti che darebbero diritto ad usufruire
gratuitamente della bici condivisa. Il bike sharing così organizzato potrebbe
essere completato con dei badge giornalieri per turisti, con facilitazioni per
gli stessi e sconti sugli ingressi a musei locali. Il bike box funzionerebbe
anche da centro ricarica per bici a pedalata assistita. E’ un modello culturale
difficile da cambiare perché rappresenta una presa di responsabilità di un bene
pubblico. Anche questo può servire per “cambiare passo”.
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