“Papà è imbarcato”. Rimanevo
affascinato quando udivo queste parole dai miei nuovi compagni di scuola, io,
appena arrivato da Milano, da quella città degli anni ’70, fatta di violenza,
di smog, fabbriche, manifesti dei radicali e prostitute la sera sotto casa. Il
mare per me, era la spiaggia dei Saraceni, pescare sotto i trabocchi
abbandonati, andare alle Tremiti con il Nibbio. In ogni famiglia ortonese,
c’era stato o c’era, qualcuno che avesse avuto a che fare con il mare. Me le
ricordavo le facce dei miei compagni, quando scendevamo sotto a piedi, la
mattina presto, tra i pescatori che rammendavano le reti su via Cervana, quasi
storditi dall’odore dell’olio dei motori, la puzza di pesce e le alghe secche
ammucchiate. Vedevo i miei compagni guardare con fastidio a quelle banchine,
pensando ai padri lontani, in un porto cinese od australiano. Parlavano come
può parlare un ragazzino, dei padri assenti quasi senza volto, come li avessero
dimenticati in un limbo di uomini persi nella nebbia di un fiordo, a riapparire
ogni tanto con le valigie piene di ricordi e qualche puttana nascosta nelle
loro menti, a smorzare il desiderio delle compagna. Questi padri lontani
parlavano dai telefoni pubblici di Singapore, di New York, ad orari concordati,
affinchè i figli si mettessero sulla sedie per arrivare all’apparecchio, per
sentire le voci di quei marinai, ai quali chiedevano di essere padri a Natale o
a Pasqua, senza risposte. Era difficile vederli, i padri. Entravi nelle case
dei miei amici e sentivi la loro presenza negli oggetti, usciti dalle valigie
aperte dopo sei mesi, un anno, due anni. Arrivavano i padri, davanti la porta
di casa c’erano questi figli sempre più grandi, sempre più diversi, estranei.
Nel volto delle madri, costrette ad essere uomini, ad essere famiglia, tra le
mura delle loro solide case, fatte con le tempeste nel Pacifico, con le roventi
coste d’Africa, con i ghiacci di Terranova, dove i padri, stretti nel rombo
delle macchine, sotto le chiglie o serrate nei cappotti in plancia, guardavano
le fotografie dei loro bimbi, attaccate con lo scotch ai bordi degli oblò. I
miei compagni mostravano orgogliosi i regali dei padri da tutto il mondo.
Mancava la luce nei loro occhi, la luce di quegli uomini lontani a contare i
giorni: Tommaso, perché nei mari del mondo c’è sempre un Tommaso che naviga,
Ernesto, Pompeo e la sua Bourbon Street, Nino ed i suoi bambini del Maracanà,
Gabriele e le navi granaio sul Baltico, che ci mettevano due mesi a scaricare,
Antonello al Centro del Golfo del Messico, Cesare e le sue scatole di
sigari.
I padri andavano in pensione
nelle città da dove erano partiti e nelle quali si perdevano più facilmente che
a Bangkok. Li vedevi i padri, vecchi con le rughe rubate ai venti dell’oceano,
guardare il mare dall’Orientale, sperando che nuove petroliere potessero
arrivare a prenderli di nuovo, perché quando si è stati così lontani, per così
tanto tempo, gli affetti sono affetti senza ancore. Questi figli con i padri
anziani accanto, quasi volessero convincersi che furono bambini mentre un uomo
spingeva la loro altalena od alzava la voce per un compito non fatto, guardano
questi vecchi pensando a quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Li
rivedo, i miei compagni, con le barbe bianche come la mia, ora che perdono per
sempre i loro padri, aspettare che qualcuno telefoni loro, da molto lontano,
per promettere che sì, torneranno per Natale e resteranno a casa, per sempre.