domenica 24 novembre 2013

Orazione in contumacia.



Amici, compagni,
sapete bene quale possa essere la mia ritrosia nel parlare in pubblico, non sono un buon oratore. Con la penna me la cavo meglio. Mi è stato chiesto un intervento. Sarà il compagno Enzo a leggerlo in mia vece.  Chi vi scrive, ha vissuto con interesse e passione le vicissitudini degli ultimi trent’anni di vita politica ortonese. Ho creduto in questi anni, alla costruzione di un futuro per me e la mia famiglia ad Ortona. Dopo alcune battaglie perse insieme a mio padre, dal punto di vista lavorativo, scontrandomi con la superficialità, la furbizia, la disonestà, di una larga fetta del mondo imprenditoriale locale. Ho tentato, di ricominciare, prendendomi sulle spalle la responsabilità di un’impresa artigianale. Provenendo da una famiglia di impiegati statali, con il cuore a sinistra, ho vissuto le contraddizioni che questa condizione può comportare. Gli inizi sembravano carichi di promesse e speranze. Oggi sto atterrando in modo traumatico, dal volo che avevo iniziato con tanto entusiasmo. E’ vero, non sono un uomo libero. Le difficoltà economiche mi soffocano, ma ho ancora la libertà di dire quello che penso e sento, senza paura di farmi  dei nemici, anche fra di voi. Quello che vedo, in questa città, è l’impossibilità di scorgere la realtà oltre il proprio naso. Ortona non è una città a vocazione turistica. Non potrà esserlo mai. Forse lo è stata fino agli inizi degli anni ‘70, prima del Piano Regolatore, che ha variato gli assetti commerciali del nostro paese. Ma questo non basta ad affermare la mia convinzione. Ortona non è una città turistica perché non esiste una cultura dell’accoglienza e della ricettività. Chi volesse controbattere alla mia affermazione, potrà essere smentito dalle vicende relative al G8 de L’Aquila nel 2009 quando, numerosi furono gli stranieri i quali usufruirono del nostro scalo per gli incontri diplomatici. La città fu impreparata ad accogliere quanti avrebbero potuto portare benefici economici alla nostra dissanguata economia. Ci fu incapacità organizzativa, ignavia, mancanza di idee, assenza delle istituzioni. Il fallimento nel cogliere questa opportunità, fu il peggiore di una serie di fallimenti: ricordiamo i traghetti per Spalato, gli aliscafi per le Tremiti, le associazioni di commercianti in perenne battaglia, la decisione “politica” di avere un Ipermercato, la chiusura decennale del Palazzo Farnese, lo sventramento urbanistico del centro cittadino in favore dei palazzinari, la chiusura del cinema, gli orari improbabili dei pochi musei cittadini, lo smantellamento dell’Istituto tostiano, la totale inconsapevolezza da parte dei cittadini di avere l’Enoteca Regionale, il disarmo delle festività del Perdono sostituite da sagre tunisino-cinesi, la distruzione del Parco Ciavocco in favore di un inutile parcheggio, la quasi totale chiusura dell’Ospedale, la desertificazione dell’area industriale, la scomparsa del cinema, la gestione fumosa di via Cervana e del molo nord, il totale disfacimento del vecchio tracciato ferroviario, la cementificazione cubista dei quartieri più vivibili. Termino con il capolavoro assoluto: il crollo dell’unico trabocco esistente nel comprensorio comunale. Amici, diciamo la verità, fino alla fine degli anni ’90, quando un gruppo di lavoro di architetti, si interessò di loro, a nessun ortonese fregava niente dei trabocchi. Andavamo su queste spiaggette per i picnic, per mettere due tette all’aria e pescare qualche peloso illegalmente. Così abbiamo lasciato sfuggire questa occasione, colta al volo da San Vito in giù. Ora mi chiedo, siete pronti a far cambiare testa ed intenzione agli ortonesi nel giro di qualche anno e trasformare Ortona in una piccola Monte Carlo oppure nella messapica costa salentina? Siete pronti a dire ai disoccupati ortonesi di pazientare in attesa di queste rivoluzioni pacifiche, invitandoli a aspettare qualche anno, considerando che le bollette e la spesa si pagano QUASI OGNI GIORNO? Siete pronti ad imporre ai contadini, ulteriori vincoli ad un’agricoltura che oggi è di pura sussistenza? E’ un discorso che non vi farà piacere, ma vi chiedo di guardare oltre i vostri sogni: cerchiamo di sfruttare la nuova occasione che si sta offrendo al paese con i nuovi appalti ricevuti dalle imprese portuali e marittime. Potenziamo le infrastrutture che collegano il nostro scalo alla rete viaria, creiamo delle aree per lo stazionamento dei container, invogliamo l’attracco delle imbarcazioni da diporto, incentiviamo i giovani a seguire percorsi di studio inerenti discipline marittime, teniamoci stretto il Nautico, regolamentiamo l’attracco di pescherecci da altre regioni, evitando il saccheggio del nostro mare in cambio di nessun beneficio economico, rivalutiamo il mercato ittico. Soprattutto: non facciamoci dire come dobbiamo vivere o morire da persone che hanno la propria vita, il proprio reddito altrove, che non rischiano di farsi staccare la corrente perché non hanno lavoro. Solo così avremo la possibilità di essere sereni per iniziare un cammino di trasformazione della nostra città. Adesso: mirate dritto al cuore, non voglio la benda sugli occhi.

sabato 7 settembre 2013

Wherever I lay my hat, that's my home

Non ci sono riuscito. Eppure ci ho provato. Sono passati tre anni da quando ho traslocato in una frazione del mio comune. Ho cambiato stile di vita ed orizzonti , iniziando a vivere la campagna in tutte le sue sfumature. Ho dovuto entrare nei meccanismi delicati che regolano i rapporti, specialmente quelli consolidati nelle piccole comunità dove, si è stretti nella morsa del vicinato, fin dalla nascita, dove ognuno deve essere partecipe della tua vita e tu devi essere partecipe della sua in una sorta di apoteosi dell'empatia forzata, totalmente contraria alle dinamiche cittadine. Un luogo dove un metro di confine può esere oggetto di dispute sanguinarie, dove un favore ha da essere ricambiato, pena la rottura dei rapporti. Ho iniziato così, sfruttando la terra, ad avvicinare chi quella terra la viveva e con essa dava sostegno alla famiglia. Ho iniziato a coltivare un piccolo orto, cercando, con umiltà, di avvicinare i contadini più anziani, per conoscere segreti, stagioni, tecniche. Piano piano il mio orto è fiorito insieme alla confidenza  con questi uomini, profondamente diversi da quelli del "capoluogo". Tuttavia qualcosa non è passato inosservato. La comunità nella quale vivo, considera elemento qualificante, la partecipazione alla pratica della fede, nelle sue istituzioni fondamentali. Professare un certo agnosticismo, o addirittura ateismo è simile a praticare il satanismo. La cosa più preoccupante è stata scoprire come ogni atteggiamento moralmente civile,  fosse meno valido, se non accompagnato da una giustificazione religiosa. Hanno iniziato a prendere il sopravvento le prime prese di distanza dalla mia famiglia. Le mie attività sportive, la normale "eccentricità" del nostro atteggiamento familiare è stata intesa come fortemente deviante e destabilizzante per una comunità, unità strettamente e poco propensa ad accettare esterni come elementi di arricchimento per la comunità stessa. Ho iniziato a percepire un leggero senso di isolamento che all'inizio imputavo ai doveri che ognuno ha e che portano spesso a non avere tempo per i rapporti sociali. Piano piano ho scoperto che questo isolamento in parte era dovuto alla mia impossibilità di partecipare alle attività aggreganti della mia comunità. Pranzi, cene, manifestazioni folklorisitche e religiose, attività musicali e sportive. in ogni caso eventi organizzati da un gruppo fortemente unito perchè cresciuto con una identià comune e consolidata dal contesto territoriale. Alla fine, non sono stato accettao e non mi sono fatto accettare. Ho tirato i remi in barca ed ultimamente, mi limito al saluto cordiale che è dovuto specialmente alle persone anziane. Non sono solo in questo atteggiamento. Ho scoperto che esiste una parte della popolazione la quale, concepisce contrada, come luogo di riposo e pernottamento, preferendo altri siti per espletare i bisogni di socialità. Sono persone che riesco solo a scorgere , la mattina, quando vanno al lavoro e la sera quando rientrano. Esse non hanno alcun rapporto con i contradaioli e, ho scoperto, non intendono averne assolutamente.
Esiste anche un elemento molto inquietante: la vita a stretto contatto, anche visivo, con i vicini e la mancanza di rapporti, costringe gli altri a tessere la trama delle vite altrui, costruendo miti e leggende, le quali, passate di comare in comare, assurgono a poemi epici, molto spesso conditi da poco nobili gesta. Si diventa strani ad honorem. Inizi a notarlo quando tenti il saluto ed ottieni una risposta ritardata da una finta distrazione. Quando le ciance delle attempate signore scendono di volume al tuo passaggio, quando le ombre si muovono, dietro gli scurini, ad osservare il uo passaggio, per scrutare i tuoi vestiti, le tue borse, le tue buste della spesa ed i tuoi armeggi davanti la macchina parcheggiata. Approssimandosi il terzo autunno, voglio dire basta. Non mi va più di forzare il mio animo nella ricerca di un punto di contatto, non voglio cercare il cenno di saluto, non voglio essere il primo ad avvicinarmi. I nostri mondi non combaciano, non ci sono migliori o peggiori modi di vivere e di pensare, sono solo diversi e non collidono. Non c'è molto da fare. Ci abbiamo provato, ci ho provato. Non ce l'ho fatta.

domenica 10 febbraio 2013

Arriverà l'estate

Arriverà di nuovo. In questo freddo tagliente, senza compromessi, chiuso nella mia giacca, mi ostino a cercare lungo la spuma lasciata dai flutti, sulla spiaggia, il segno. Si ripete il sole di taglio tra le creste del mare. Un branco di piccoli pesci, in controcorrente, sul torrente gelido dai fossi. Tuttavia il cane sembra infischiarsene. Corre tra le dune, le immondizie lasciate dal vento. Le settimane veloci, un dolore aggiunto a vecchi dolori sul corpo, un brivido di brezza più caldo e la voglia di levarsi la sciarpa. Ma gli odori no, non li sento più. Come un animale, da ragazzo, riuscivo a scorgere negli ampi respiri, gli odori delle stagioni. Dalle sterpaglie in mucchi lungo i campi, ai ceppi delle potature, alle prime fioriture lungo le strade d'aprile, conoscevo i volti delle stagioni. Il naso tra gli scogli ad aspirare il salmastro ristagnare, le tane dei granchi. L'odore di vecchio pescato tra i legni delle barche, il lezzo del bitume e della miscela tra le banchine. Ora no. Come un sipario lento, le stagioni, si chiudono al mio olfatto. Inverno, estate, primavera...forse mi è rimasto l'autunno, dove credo ogni cosa abbia inizio. Altro si chiude, mi accorgo ora, che tutto ciò mi indignava qualche anno fa e mi faceva fremere di sdegno, mi interessa in modo assai relativo. Mi arrabbiavo con chiunque avesse, a quei tempi, l'atteggiamento che ora io stesso mantengo, verso fatti e opinioni diverse. Comprendo solo adesso la vanità delle questioni, gravi per me anni or sono. Cinismo? Non credo. Rassegnazione? Forse. Ritengo più opportuno parlare di corazza, crosta, guscio. Sopravvivere è l'imperativo. Inizio a contare le stagioni dalle semine, le colture, le potature. Penso che natura non si dia pensiero per gli inutili bisticci dell'essere umano.  Inizio ad avere la stessa linearità di pensiero del mio cane: mangiare, dormire, bere, fare all'amore. Così aspetto l'estate per tornare a vedere le lucciole la notte, nell'oliveto dove porto Peppe a fare i bisogni, per veder crescere i miei pomodori e le mie zucchine nell'orto e contare il tempo in mezzo alle piante dei peperoni in fila ordinata. Arriverà l'estate, sì.